IL CANE PASTORE TURKMENO
sikurt - sicurezza abitativa anticrimine
 
23/05/2017 - Il mio 9° viaggio in Asia centrale e in Asia meridionale



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Mi capita spesso che qualcuno mi chieda, con un certo stupore, come io possa capire le future doti caratteriali di un cane, nonostante lo stesso sia solo un cucciolo di pochi mesi; come possa riuscire ad individuare la sua futura attitudine nel saper proteggere la famiglia dai ladri, piuttosto che il bestiame dai predatori. La mia risposta a queste domande è sempre la stessa: “Continuo a studiare!”.

 

Per quanto molti professionisti del settore cinofilo si vantino oggi di conoscere il cane alla perfezione, tanto da aver ormai stilato un decalogo di regole da applicare per educarlo ad assecondare ogni capriccio del padrone, vi posso assicurare che il cane è un animale estremamente misterioso (non per nulla discende dal lupo!), pieno di sfaccettature comportamentali legate sia alla sua genetica che al ruolo di branco al quale appartiene e, non per ultimo, all’ambiente in cui viene allevato, così come alla qualità dei compagni con i quali lo si costringe a convivere nel suo stato di “moderna detenzione”. Lo stesso cane può reagire in mille modi diversi a seconda di dove vive, con chi lo si mette a convivere e con quale atteggiamento lo si approcci, tant’è che basta cambiarlo di famiglia e, spesso, da tanto aggressivo che si manifestava, può improvvisamente trasformarsi nel più docile degli agnelli!

 

Tutti questi “segreti” sui cani, però, non è immaginabile scoprirli rimanendo seduti in poltrona a visitare le migliaia di pagine pubblicate su Facebook dai tanti appassionati cinofili di ultima generazione, né tanto meno trascorrendo i pomeriggi ad osservare le fotografie e i video che circolano su WhatsApp.

 

Io ho solo e sempre creduto in una cinofilia pratica, fatta di intere giornate di lavoro con i tanti cani che allevo e, ogni volta che potevo, recandomi per qualche settimana in quelle realtà “lontane” dove la società permette ancora a questo animale di vivere liberamente da cane, né più né meno di come lo concepì il Creatore. Non come sta invece accadendo in occidente dove questo animale viene tenuto in totale stato di prigionia fisica e psicologica da un uomo sempre più assurdo e privo di ogni identità personale, tanto da voler cercare nel suo cane ciò che ha ormai smarrito da tempo.

 

 

I motivi per i quali quest’anno ho deciso di visitare il Nepal e il Tibet, i due continenti divisi dalle cime dell’Himalaya (la più importante ed alta catena montuosa del mondo), sono stati molteplici.

 

Innanzitutto ero molto curioso di poter incontrare i pastori nepalesi e tibetani, dai quali poter imparare qualche altra nozione sui loro sistemi di protezione del bestiame dai tanti predatori che popolano quelle zone, e non solo i famosi lupi himalayani ma anche gli orsi, le linci, le tigri e i leopardi.

 

 

Il mio secondo obiettivo era quello di scoprire la verità su quanto viene pubblicizzato oggi sul web sotto il nome di autentico "Mastino del Tibet” o “Tibetan Mastiff”, un buffo animalone di oltre cento chilogrammi, fatto diventare enorme in cattività dagli allevatori cinesi e caratterizzato da una criniera simile a quella di un leone. Un vero e proprio fenomeno da baraccone che sta appassionando sempre di più i "cinofili da tastiera" e che sta diventando un ulteriore business per gli orientali, i quali non si lasciano sicuramente scappare l'opportunità di guadagnare denaro sulle spalle di chi possiede ancora una scarsa cultura cinofila. Basti dire che lungo le strade principali che conducono alle località turistiche del Tibet ci sono file di cinesi che, in cambio di un dollaro, permettono di fare fotografie e filmati al fianco di questi soggetti privi di ogni vitalità e disposti a farsi maneggiare da chiunque. Spesso si tratta anche di animali molto sofferenti e mortificati dalla loro mole così sproporzionata, soggetti che faticano addirittura a respirare e/o a muoversi, ma tutto questo non sembra interessare nemmeno ai tanti occidentali così sempre ben disposti a proclamarsi amanti degli animali.

 

 

Non per ultimo, volevo poter osservare nei dettagli il comportamento delle migliaia di cani che vivono ancora allo stato randagio sia a Kathmandu, la capitale del Nepal, che nei tantissimi villaggi nepalesi e tibetani situati negli anfratti più nascosti delle montagne himalayane.

 

 

E’ stata un’esperienza abbastanza dura quanto però  entusiasmante, condivisa con due ottimi compagni di viaggio. Si tratta di Roberto di Arezzo (in foto a destra), giovane pastore, il quale mi ha accompagnato nelle mie escursioni lungo i villaggi nepalesi situati nell'area protetta del Parco dell'Annapurna, tra le due valli della Marsyandi e della Kali Ghandaki, zona dove risulta esserci il maggior numero di Himalayan Wolwes, i leggendari lupi himalayani e Daniele di Roma (in foto a sinistra), presidente dell’Associazione “Nati Liberi”, perdutamente innamorato e studioso di cani randagi, con il quale ho anche condiviso la mia "dolorosa" esperienza in Tibet.

 

Devo ammettere che, per un cinofilo come me, in cerca di cani da studiare e fotografare, né il Nepal né il Tibet si sono manifestati così tanto facili da visitare!

 

 

Il Nepal è ricchissimo di affascinanti itinerari percorribili lentamente a piedi e, in certi casi, in sella ad una buona mountain bike, se dotati di gambe ben allenate, qualora però non si disponga di troppo tempo (com'è stato nel mio caso) e si desideri percorrere molta strada in auto, con lo scopo di raggiungere più villaggi possibile dove poter incontrare cani da fotografare e abitanti locali da intervistare, tutto diventa estremamente più complicato. Le strade che si inerpicano verso le cime dell’Himalaya sono estremamente dissestate, rischiose per la loro continua precarietà e spesso ostacolate da frane rocciose appena cadute.

 

 

La velocità media percorribile a bordo di un buon fuoristrada non supera mai i 10/15 kilometri all'ora, con un continuo sballottamento all’interno dell’abitacolo capace di mettere a dura prova anche i più resistenti di stomaco. Ovviamente una bazzecola per gli abitanti locali che sono nati fra quelle montagne proibitive e sulle quali si arrampicano da sempre con carichi dal peso inimmaginabile, semplicemente adagiati sulla loro schiena e legati ad una fascia che gli attraversa la parte frontale della testa.

 

 

La principale difficoltà che si incontra visitando il Tibet è rappresentata dall’altitudine media che caratterizza l’intero altopiano, basti pensare che Lhasa, la capitale nella quale si atterra con l’aereo, si trova a 3650 metri s.l.m.m e non appena ci si sposta verso i villaggi si supera immediatamente i 5000. Per chi non è abituato a quell’ambiente, è facile patire il “mal di montagna”, una condizione patologica causata dal mancato adattamento dell'organismo alle grandi altitudini, in particolare dovuta alla più bassa pressione atmosferica che determina una ridotta presenza di ossigeno nell'organismo generando uno stato di generale ipossia. Si tratta di una condizione minacciosa che, nei casi più gravi, se non tempestivamente e opportunamente trattata può anche essere letale. Si manifesta con frequenti mal di testa, spesso accompagnati dalla perdita di appetito, nausea o vomito, fatica o astenia, vertigini o senso di stordimento, insonnia o irritabilità. Non per nulla ogni albergo è dotato di numerosi bombole di ossigeno e in ogni piccolo spaccio alimentare si possono trovare bombolette portatili con le quali trovare un po’ di sollievo.

 

 

Raggiungendo alcuni villaggi situati nelle quote più elevate, il mio coriaceo compagno di viaggio Daniele, in tipico romanesco esclamava spesso: “Ezio, me sento a morì, i capillari degli occhi me scoppiano, ho due pistoni che me stantuffano ai lati della testa ed una persona che mi sta a strangolà con le mani sotto la gola!”.

 

 

Ugualmente provato, io ridevo per sdrammatizzare, mentre lui, un po’ indispettito, ribatteva­: “Che stai a ride…, qui ce lasciamo la pelle!”. Fortunatamente non è mai successo nulla di grave, ma il nostro fisico si è manifestato spesso molto debilitato, la minima fatica ci provocava un grande fiatone e frequenti giramenti di testa. Sarebbero stati necessari molti più giorni di permanenza in Tibet per consentirci una migliore acclimatazione ma il nostro tempo a disposizione era poco, mentre il nostro obiettivo quello di incontrare il maggior numero di cani da fotografare e abitanti dei villaggi locali da poter intervistare.

 

 

Una seconda, ma non irrilevante, difficoltà nel voler raggiungere i pastori tibetani, è dovuta alle tante restrizioni imposte dal governo cinese ai turisti che desiderano visitare il "Tetto del mondo". I tibetani vivono ormai da più di 50 anni in uno stato di totale sottomissione al governo cinese che li priva di ogni libertà di pensiero, informazione, cultura, azione e sviluppo economico, basti pensare che in questi ultimi anni sono già oltre un centinaio gli uomini e le donne che si sono bruciati vivi per manifestare contro questa invivibile condizione di vita.

 

Fin quando si tratta di visitare i monumenti situati nella capitale o nelle strette vicinanze, tutto risulta normale, ma se si richiede di girovagare fra le meravigliose montagne tibetane, le limitazioni diventano tantissime e risulta assolutamente necessario dotarsi di permessi speciali da richiedere al governo cinese, oltre ad avere l’obbligo di spostarsi solo ed esclusivamente con una guida ed un autista precedentemente autorizzati e dai quali non è mai possibile allontanarsi. E, come se non bastasse, ad ogni uscita da un distretto per entrare in un altro, è necessario esibire alla polizia il proprio passaporto, munito del regolare visto e del permesso speciale di entrare in quella zona.

 

 

Non è permesso dormire nelle case dei tibetani ma solo in strutture autorizzate dal governo, non si possono percorrere itinerari al di fuori da quelli autorizzati e i turisti possono solo viaggiare su automobili dotate di due strumenti satellitari, uno capace di rivelare in ogni istante il posizionamento geografico dei turisti e l’altro dotato di una telecamera capace di sorvegliare ogni movimento (qualcuno sostiene anche di sentire ogni discorso) dei turisti, fino al giorno in cui si lascia il Tibet.

 

 

Non essendo concessa, alle automobili che trasportano i turisti, la facoltà di percorrere le strade che portano sulle montagne tibetane, dove si trovano i pastori, è sempre stato necessario fermare l'automobile sui cigli per poi proseguire a piedi, dovendo però fare i conti con le tante difficoltà fisiche causate dall’altitudine.

 

Nonostante tutto, il Tibet è stato uno dei luoghi più affascinanti che abbia mai visitato fino ad oggi in Asia Centrale, così come le catene montuose del Nepal mi hanno lasciato molte volte a bocca aperta per la loro maestosità. D

 

a questo viaggio, sono tornato un po’ debilitato (forse anche per l’intensità del programma che mi sono imposto di svolgere in così pochi giorni) ma altrettanto soddisfatto. Ho raccolto molta documentazione importante per gli studi che sto compiendo da anni sul cane da pastore, sia fotografica che in video, oltre alle testimonianze dirette della popolazione himalayana.

 

 

Non appena avrò tempo, e solo dopo aver “risistemato” la mia azienda agricola dotata di tanti cani e obbligatoriamente “abbandonata” per circa due settimane, pubblicherò un ulteriore servizio nel quale parlerò dei cani incontrati durante questa mia ricerca, riservando però il meglio delle fotografie e dei racconti solo al mio libro di prossima pubblicazione!

 

 

 

 

 

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